La ceramica Raku nasce per mano del maestro ceramista Chōjirō (長次郎), vissuto in Giappone nel XVI secolo.
Nella lingua italiana, la parola Raku si traduce, letteralmente, con i sostantivi “gioia”, “piacere”, oppure “quiete”. Se questo termine viene associato ad un oggetto generico oppure, in maniera più appropriata, ad una tazza da tè, il significato cambia e la parola “Raku” diventa l’equivalente di un aggettivo traducendosi con “maneggevole” oppure “comoda”.
La giustificazione di questa duplice traduzione va ricercata nella genesi della parola Raku che, pur nascendo per indicare la creazione di un nuovo tipo di tazza da utilizzare per la “Cerimonia del tè”, col tempo diventa il sinonimo caratterizzante di un gruppo familiare e una tecnica associata alla ceramica.
Si racconta che durante l’epoca Momoyama (1573-1615), Chōjirō, un ceramista coreano addetto alla produzione di tegole, conobbe il monaco buddista zen chiamato Sen no Rikyū (千利休)(1522-1591), maestro di chanoyu (茶の湯) ovvero cerimoniere del tè. A quest’artigiano della terracotta il monaco ordinò di fabbricare una tazza per la cerimonia del tè realizzandola senza il tornio e senza sovrapporre l’argilla a mo’ di spirale (tecnica a lucignolo). Ubbidendo alle disposizioni del religioso, Chojiro modellò un pezzo di argilla con le sole mani, creando una piccola ciotola che Sen No Rikyū giudicò perfetta per estetica e per praticità.
In Giappone, la “Cerimonia del tè” era conosciuta e praticata molto prima del XV secolo e risalirebbe, secondo alcuni studiosi, a prima dell’anno Mille. I cultori di questa antica arte ne associano la nascita alla notevole diffusone della bevanda tra le classi aristocratiche cinesi, come è documentato in un antico “Canone del tè” (VIII secolo), un cerimoniale che, in maniera molto formale, accompagnava e regolava il consumo del tè.
Quali furono le motivazioni che convinsero il Maestro cerimoniere Sen no Rikyū a sconvolgere l’antica arte arrivando a sostituire finanche le finissime tazzine in ceramica di origine Cinese con l’umile tazza prodotta da Chōjirō?
Il monaco buddista zen era considerato il depositario ultimo di questa tradizione dopo i grandi maestri: Murata Shukò e Takeno Jòò. La sua rivoluzione ebbe come principi guida il Wa (l’armonia), il Kei (rispetto), il Sei (la purezza) e il Jaku (la tranquillità). Questi quattro concetti ispiratori, battezzati “Wabi-cha”, arricchirono ed integrarono la cerimonia del tè con una filosofia (tutta zen) basata sulla ricerca della semplicità attraverso l’uso di oggetti poveri e sul rifiuto assoluto dell’ostentazione. Questa innovazione doveva racchiudere e simboleggiare l’essenza della stanza utilizzata per la cerimonia del tè. L’ambiente dove si svolgeva il rituale non doveva considerarsi più come il luogo fisico dove svolgere una cerimonia. Esso doveva essere il luogo spirituale, lo spazio creativo dallo stile semplice, privo di riferimenti e spoglio da ogni possibile orpello, con pareti grezze e immune da mondanità: “la dimora del vuoto assoluto dove la mente di chi partecipa al cerimoniale possa abbandonare, con tranquillità ogni legame alla vita elegante uscendo temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni”.
Piacque anche esteticamente, la tazza di Chōjirō, il suo aspetto semplice e regolare le conferiva la giusta austerità mentre, la forma larga e bassa le garantiva la stabilità ideale quando, senza nessun pericolo di ribaltamenti, la si spostava sul Tatami.
Sen no Rikyū, soddisfatto dalla bravura del ceramista, lo autorizzò a fregiarsi del sigillo Raku concedendogli il diritto ad utilizzarlo come sinonimo per tutti i suoi discendenti. Poiché la cerimonia del tè era praticata, principalmente, da nobili e religiosi, le tazze venivano lavorate e realizzate soltanto su richiesta e utilizzando un’argilla diversa da quella abituale, con possibilità di ridurre i tempi di produzione a pochissime ore. Per tale produzione, l’argilla utilizzata doveva avere caratteristiche diverse da quella utilizzata per le ceramiche comuni.
La velocità d’esecuzione prevedeva che ogni singola tazza fosse tolta dal forno ancora incandescente e ad una temperatura che oscillava attorno ai 1000° centigradi. Le prime tazze da tè realizzate con questa nuova tecnica furono chiamate: Ima Yaki (楽焼), che letteralmente significa “oggetti di adesso” oppure “oggetti prodotti in un tempo presente”. In seguito, le tazze furono ribattezzate col nome di Yuraku – Jaki, traducibile in “cotte adesso”. Questo nuovo modo di lavorare la terra, affidandosi soltanto alla manualità e senza l’ausilio del tornio, permetteva al ceramista di porsi in intima relazione con i materiali e con l’oggetto che andava creando e poiché non era più condizionato dai lunghi tempi previsti nella ceramica tradizionale, il suo spirito poteva percepire e completarsi tra sensazioni di pace, di quiete e di gioia. Questa acquisita spiritualità, messa al servizio della cerimonia chanoyu, fu definita con la parola Raku. Tale termine, adottato per indicare la nuova tecnica, venne utilizzato anche come aggettivo caratterizzante di alcune famiglie che, generazione dopo generazione, si dedicarono alla produzione delle ceramiche Raku.
La maestria di Chōjirō seppe sublimare la manualità al punto da renderla alternativa al movimento del tornio, alla decorazione e alla forma. Il suo insegnamento ci ha donato una grande lezione d’arte riuscendo ad elevare una semplice tazza per il tè a una pura manifestazione di spiritualità che, benché astratta, se ne riusciva a percepire il rigore e della quale tutti potevano far parte.
Questa lezione ha guidato, per oltre cinque secoli, gli artisti Raku a sperimentare e ricercare forme dal giusto equilibrio che potessero svelare e comunicare l’essenza stessa della purezza, arricchendo con nuovi modelli l’arte del Raku.
Per essere fedele allo spirito che ha portato alla nascita di questo nuovo modo di lavorare l’argilla, va ricordato che chiunque si avvicini all’arte Raku dovrebbe tener presente che la creatività nasce dallo spirito e dalla capacità di ogni individuo a saperlo trasmettere, anche attraverso una semplice ed umile ciotola, evitando di eccedere in un individualismo eccessivo.
Purtroppo, dopo alcuni anni e con la morte di Sen No Rikyū, le ceramiche che dovevano esprimere il massimo dell’austerità e della povertà raggiunsero costi elevatissimi tanto che alcune ciotole realizzate da celebri maestri vennero utilizzate come premio per alcuni valorosi Samurai.
Sempre più spesso le classi privilegiate andavano alla ricerca di tazze che presentavano imperfezioni quali: bolle, colature di smalto o zone non coperte poiché secondo alcuni “scaltri” ceramisti, erano questi i segni evidenti che davano all’oggetto il tratto distintivo dell’umiltà che meglio incarnava l’ideale estetico del “Wabi-cha” dettato dal monaco buddista zen Sen no Rikyū, ultimo Maestro della “cerimonia del te”.
Vincenzo Paudice
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